Sulla scena tre sedie e una cassa da morto. Subìto il compunto défilé del vicinato, tre sorelle si apprestano a vegliare per tutta la notte la salma del marito di Maria, prima che la sua anima lasci definitivamente la casa.
Gli abiti rigorosamente neri, i rosari da sgranare e un paio di Ave Maria, come si confà a una vedova del Sud e alla famiglia che ne partecipa il dolore.
Maria, Franca e Rosa devono sembrare addolorate. Devono recitare finte preghiere. Devono anche adesso tacere, tuttalpiù piangere. Ché le pareti della casa non sono così spesse. Ché i vicini potrebbero sentirle.
Loro che hanno sempre sottratto la verità agli occhi e alle orecchie della gente, devono anche adesso imbacuccare con finte preghiere la festosità che esigerebbe quella dipartita.
Carmelo, del resto, pensava solo alle macchine, ai motori, a dormire, e a “ficcare”. Ora giace lì, in procinto di varcare la soglia del regno di dio. Sempre che qualcuno lassù non lo rispedisca al mittente. E il mittente è Maria, “pigghiata” dall’amore e dall’amore sputata. Occorrerà al mattino sbarrare porte e finestre affinché Carmelo in quella casa non possa più mettere piede.
Ad accomunare le tre sorelle l’orrore di un tempo al quale solo il destino, più o meno spalleggiato, aveva potuto porre rimedio. Un passato di violenze domestiche subite e taciute. A dispetto dei lividi, degli occhi gonfi, o di un’amante.
“Avi ‘na vita chi fingemu”. Maria, Franca e Rosa “ammugghiaunu” da sempre il dolore. Poi nascevano i figli. E si illudevano di dimenticare. Bocconi amari a pranzo e a cena. Oltre i pasti, al mercato, tra la gente, “a vucca cusuta”.
Condividevano un errore: quello di aver creduto all’amore. Complici nella vita e tutte e tre “niuri, cchiù niuri da siccia” dinanzi alla morte. Vittime silenziose di cannibali che divorano il cuore, verso i quali lo sdegno, durante la veglia, zampilla gorgogliando da dentro. E mescola ricordi, verità, flebili attese. Mescola anime dissimili ma accomunate dal desiderio di ricominciare.
La speranza di una vita senza botte, eventualmente di un amore nuovo, o di un’esistenza agiata. “Fimmini”, loro, “cu figghi fimmini”, in quell’universo misogino e primitivo che sottovaluta la forza delle donne.
Tre vite trascorse al buio, come taddrarite. Ora balugina la speranza. E se oltre le asfittiche pareti domestiche non vi sarà vita ad attenderle, Maria, Franca e Rosa hanno comunque rinvenuto la forza nelle parole di una notte e nella complicità la consapevolezza di non essere sole.
Al mattino l’anima di Carmelo è già andata via. Bisogna solo sbarrare porte e finestre perché non le salti in mente di rientrare.
È tutto questo, e molto altro, “Taddrarite” (pipistrelli), scritto, diretto e interpretato da Luana Rondinelli. A sostenere la sua, come la dirompente azione sulla scena di Giovanna Mangiù e Silvia Bello, una drammaturgia che assesta violenti colpi al silenzio, che disseppellisce il male, che si fa beffa finanche della morte, e che pure riesce nell’ardua impresa di sottrarre gravezza alla vita spargendo granelli di ironia e levità.
Ultima replica di “Taddrarite” questo pomeriggio al Clan Off. Imperdibile occasione di assistere alla messa in scena della violenza, senza incassarne i colpi, senza rinunciare a quell’atteggiamento di bonario e divertito distacco dalle cose, che ci salva.
(da Tgme.it)
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