Un comunissimo balcone da scartavetrare prima e da ridipingere poi. Di nero.
Due imbianchini all’opera in un sabato come tanti che prelude al ricorrente nulla domenicale.
Un tempo che potrebbe scorrere senza battiti irregolari se solo ci si limitasse a lavorare, azzerando parole a sproposito e tanto inusuali quanto superflue riflessioni.
Ché l’universo di due solitudini è tutto lì: nel mestiere che imbottisce i giorni, nelle cadenzate pause che quietano fame e sete, nell’attesa del riposo che è un giorno senza storia, nella rassegnazione d’una esistenza sulla quale non si ragiona mai.
Mimì però, in quel pomeriggio qualunque, ha poca voglia di scartavetrare il balcone e tanta di stabilire una comunicazione col burbero Felice. Nella modestia dell’agire umano si cela talora l’irrazionale urgenza di levigare la propria solitudine e dipingervi sopra quella altrui, giusto per renderla poco meno sgradita.
Due solitudini eccezionalmente agenti organizzano allora una passeggiata domenicale. L’entusiasmo è reciproco, solo in Mimì più manifesto. E finanche il lavoro risulta piacevole nella prospettiva d’una mattinata, quella seguente, già programmata.
Si sarebbe scartavetrato pure il balcone senza ulteriori elucubrazioni e nell’attesa di bere qualcosa insieme dopo il lavoro, procrastinando la sete, se non fosse piovuta lì, da un cielo ossimoricamente sereno, una donna.
Ché certe solitudini pare intraprendano la strada maestra dell’eccentricità allo scopo di sopravvivere. Ché l’immaginazione è talento. Ché chiudere gli occhi sulla realtà è salvezza.
Così, in un’escalation verbale che supera le ritrosie del più refrattario Felice, su un comunissimo balcone da ridipingere, si sperimenta la realtà soggettiva dell’altro, perdendo la propria angusta prospettiva, gradualmente conquistando un orizzonte più ampio.
E nell’istante di lucidità in cui tutto innanzi agli occhi sembra dissolversi, in cui non v’è gente, non vi sono case, non v’è musica e non v’è festa, Felice e Mimì sopperiscono alla défaillance di quell’anima fragile e le restituiscono, intatto, il sogno.
Non è vero che ci si salva da soli. Non è vero che il perfetto equilibrio pareggia il conto con l’instabilità dell’esistenza. Come non è vero che se qualcuno ha scelto per noi le tinte scure non si possa adoperare la tavolozza dei colori, o un rossetto, per infrangere la norma del vivere abituale.
C’è tutto un mondo che si schiude lì, ‘nta ll’aria. Occorre solo saperlo afferrare. Ed è lì che prende vita la drammaturgia di Tino Caspanello, carica della forza del dialetto come della calviniana leggerezza di cui s’ammanta la scrittura tutta. È lui che, al pari degli imbianchini, leviga le cose. Lui che ne scopre la vera semplice essenza.
I colori sono quelli del Sud, ma potrebbero essere quelli di un qualunque anfratto dell’universo, purché vi siano umane presenze a definirne le sfumature. Si infrangono sulla scena le certezze, se ne edificano di nuove, senza affanno si cerca quel senso nascosto dietro l’angolo per raggiungere il quale l’artista di Pagliara ha solo disseminato briciole di pane tra le parole.
Pregevole, inoltre, la performance di Cinzia Muscolino, Tino Calabrò e Alessio Bonaffini. Tre universi spaiati che insieme, dal balcone dello spazio scenico del Teatro dei 3 Mestieri, hanno confezionato un piccolo inatteso orizzonte da scrutare.
(da Tgme.it)
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