La parrucca gialla di Geppetto, gli occhi di latte del Gatto e la voce degli spiriti che alternativamente si appropriano del suo corpo, Lucignolo ingombra da solo la scena. Il compagno di giochi di Pinocchio, il diavolo tentatore e il ribelle per antonomasia, ha pur sempre una coscienza. E pare sia arrivato il momento di scandagliarne i moti, di dare libero sfogo ai flussi. Lucignolo è del resto il portatore sano di quell’utopia malsana che investe tutto il genere umano e, in quanto tale, degnamente assolve al ruolo di paradigma dell’irrequietezza. Quello stato d’animo senza coordinate spazio-temporali e per assecondare il quale si cerca, si vaga, non si trova pace mai.
Sottrattosi al giogo dell’istruzione e confezionatosi un universo a proprio uso e consumo, questo Lucignolo di Roberto Latini è un fantoccio che muore e rinasce come sottoposto a continue scariche elettriche, lucido o meno all’occorrenza, ora certo d’aver a portata di mano la soluzione ora letteralmente perso nei meandri della coscienza a più voci. E quando piange, piange solo, certo tuttavia che prima o poi tutti si uniranno al suo pianto.
Fuori dalle pagine del romanzo di Collodi, Lucignolo può ancora oggi scandire nei ritmi e nella poetica il sentire dell’uomo che rincorre l’altrove, rischiando, mentendo, dribblando i simili e gli imperativi della società. Promettere di non morire è già di per sé mentire, eppure il cappio ciondola fino a fermarsi. E resta lì. Memore di quel burattino di legno che Collodi aveva lasciato morire prima che i lettori si ribellassero al tragico finale.
L’asino ha rispettato quella promessa che non pensava di poter mantenere. L’asino vive. Gira attorno alla sua sedia, le zampe a mollo nell’acqua di questa palude che è la vita, o la morte.
La scrittura dice e non dice, e laddove irrompono i silenzi dell’uomo lì subentra la musica di Gianluca Misiti, eloquente alla stessa misura delle luci di Max Mugnai in quest’ora di sospensione dal reale nello spazio del Clan off di via Trento.
(da Tgme.it)
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