Appartengono al nostro patrimonio genetico i miti e le leggende di questa terra che, tra le tangibili complessità e le anomalie del presente, non manca di custodire un passato di visioni al quale restare avvinghiati, per avere solide radici e, più semplicemente, per essere.
Simone Corso, nei panni dello scrittore inglese Edward Hutton, ha scelto un mito e gli si è avvicinato con tutta la cautela che la razionalità impone, salvo poi lasciarsi trascinare in una realtà talora complice della mitologia, in quel suo inesorabile cammino che la conduce fino alle porte di un mondo ove perdersi, ma miracolosamente sopravvivere. Per sempre.
Sul corpo senza vita di un saraceno sulla riva del mare di Patti, la fantasia dei siciliani ha imbastito quella leggenda che vuole dimori su uno scoglio lo spirito dell’infedele di rosso vestito fattosi lupo mannaro in quella notte e in tutte le altre di luna piena che seguirono.
L’inatteso epilogo delle “feste e festini” cui la sconfitta dei turchi aveva dato il via, il risveglio quando il sangue del nemico ancora si intravede nella rena, la potenza del mito che scorta la storia. E che più non si cura della mura da ricostruire.
Da Cambridge, quando già la virata della letteratura verso i mondi fantastici è intesa come devianza e alibi che nasconde i vizi e le paure degli scrittori, il mito è una semplice fandonia. Il prete che porta i doni della comunità al mannaro, per accattivarsene la benevolenza, un furfante.
A Edward, costantemente in bilico tra il presente di una letteratura ch’egli desidererebbe reale e il passato, quello sì irreale, da respirare nei versi di Alceo, non resta che prendere il mare.
L’intento è quello di rischiarare le tenebre dell’ignoranza, di smascherare padre Domenico che sullo scoglio del mannaro nasconde un tesoretto e di tanto in tanto vi attinge.
Ad accompagnare Edward, il pescatore Don Calogero che “rema con l’eleganza conferitagli da un sapere antico”. Ad attenderlo il mare, con i suoi abissi, con tutto un mondo sottomarino da scoprire. Un tuffo per addentrarsi nel suo ventre e lasciare affiorare le paure.
Sulla roccia una piccola e sgangherata baracca costruita coi legni di una barca. Nell’aria un sibilo crescente, un lamento, un ululato carico di rabbia straziante.
Edward, al risveglio, è seduto e legato a una sedia. Addosso lo sguardo costernato del prete. Quello distaccato del mannaro. Pochi capelli, occhi neri, rughe a segnargli il tempo che neppure deve essere troppo.
“Siete voi il mannaro?” è l’ingenua domanda del giovane scrittore.
“Mi mannaru ccà” è la verità che surclassa il mito e che è pure la sua ragion d’essere.
Luca Visalli, spazzino di professione e untore dei pozzi al tempo in cui la spagnola mieteva vittime fra i superstiti della guerra. Le mani sporche di veleno, l’impossibilità di “campare”, la necessità di “scomparire”.
Uno scoglio ad accoglierlo, casa e galera allo stesso tempo. Nessun desiderio di fuga, nessuna vita da ricostruire. Solo la natura a consolarlo.
Luca Visalli, mannaro per salvarsi. Indispensabile presenza tra le acque che cullano i miti di un mondo sempre meno idoneo a contenerli.
Il “cunto” di Simone Corso, che si è peraltro ben dimenato tra l’identificazione e lo straniamento che richiedeva la messa in scena, culmina in quell’ululato di speranza che può giungere solo dal mare, sotto un cielo nero nel quale pescare la luna e non smettere mai di cercarsi.
“Lo scoglio del Mannaro”, per il quale Simone Corso ha beneficiato della collaborazione artistica di Adriana Mangano, ha il suo punto di forza nell’orizzonte immaginifico che la scrittura teatrale schiude sulla realtà. Si aggiungano a ciò gli occhi e il corpo di Corso che alle parole imprimono una forza non da poco. E ciò basta per allineare il giudizio estetico, positivo a dispetto di minime sbavature in certi complicati passaggi recitativi, alla risposta del pubblico, che al tacere del lupo mannaro ha riversato su Simone Corso scroscianti applausi.
Il Cortile Teatro Festival, di cui è direttore artistico Roberto Bonaventura con la collaborazione di Giuseppe Giamboi, anche quest’anno ha beneficiato dell’attenzione di un largo pubblico.
Lunedì 13 agosto, ultimo appuntamento, “Il muro – cronachetta drammatronica di una civile apartheid”, di e con Turi Zinna, per la regia di Federico Magnano San Lio.
(da Tgme.it)
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