Giusi Arimatea

LIBRI

LEUTA di Mario Falcone

Un giovane pescatore in copertina che rimanda a certi paesaggi verghiani, alla fatica e al sacrificio, alla pelle maltrattata dal sole, al mare sempre a un passo: fonte di sostentamento, fonte di morte.
E sono precisamente i luoghi, quelli che impastano acqua e terra, a segnare i confini dei protagonisti del romanzo “Leuta” di Mario Falcone (Arkadia, Cagliari, 2024). Ché c’è sempre un dentro e un fuori, un posto in cui sostare e uno da cui scappare, un ritorno possibile, una partenza obbligata.
Queste le premesse della storia di Enrico Criaco e della sua piccola isola. Una storia che inizia dal dolore e termina con la resurrezione, passando per le stazioni di quella via crucis che sa essere l’esistenza.
Sia ben inteso, vi sono mille modi di ritornare alla vita. E, nel caso di “Leuta”, conta il percorso interiore del protagonista, non la svolta e neppure la resa, men che meno il superamento del dolore.
Si comincia piuttosto dal sogno, con una “scena” cinematografica che l’autore, noto sceneggiatore messinese, confeziona visivamente. Poi ci si muove tra passato e presente, nell’attesa che tutto, dopo averne dissotterrato le radici, possa finalmente ricondurre al tempo della storia.
“Leuta” è un romanzo corale e insieme il romanzo di formazione di un uomo. Posto che non si smetta mai di crescere, di imparare, di sbagliare. E che molto di quel che accade sfugge al controllo dell’individuo, benché ci si sforzi, ci si attrezzi per fronteggiare i disastri.
L’isola ed Enrico procedono sul medesimo binario. L’una è ventre per l’altro, ma a entrambi pare tocchi ancora una volta scegliere. E come Leuta si arrende al capitalismo degli avvoltoi intenzionati a strapparle finanche la storia, Enrico si arrende alla solitudine. È vigliaccheria quella di entrambi, è paura, ed è stanchezza. Perché a ostacolare vanamente il destino prima o poi ci si stanca. Tanto vale lasciarlo andare.
A impreziosire l’intreccio, forte già in maniera autonoma, concorrono personaggi dotati di tridimensionalità e ai quali compete un impatto sempre significativo sulla trama. Ruotano tutti attorno al protagonista, però sono dotati di uno spessore proprio e ben si incastrano nei luoghi dentro cui ciascuno di questi letteralmente si anima.
Trasversale rispetto all’inesorabilità del destino, si insinuano fede e magia, ragione e superstizione, costrizione e libertà. Sono queste d’altra parte le peculiarità di Leuta e, per traslato, di tutte le isole, della Sicilia in particolare. Da secoli, da sempre. Attraversate dalla penna di Mario Falcone insieme agli anni. Con gli echi del mito che risuonano in ogni tempo e le donne che sempre sanno essere sirene. Sempre sanno ammaliare.
Tant’è che Nicole, cui l’autore assegna – come si addice a chi ancora molta vita davanti – forza, audacia e sconsideratezza ammirevoli, non si sottrae ai tratti delle cantatrici marine che incantavano i naviganti.
Tutto sembra insomma ricondurre al mare. E tutto scorre come l’acqua, senza posa. Guai a opporvisi.
Così che i vuoti e i pieni dell’esistenza di Enrico non debbano per forza essere sorvegliati. Così che tutto accada, persino a dispetto della sua volontà, dei suoi desideri, del suo amore.
E del resto l’amore non è l’approssimarsi di due dolori, l’irresponsabile collisioni di universi, l’ennesima allucinazione per cui tutto perdiamo, perfino noi stessi?

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