Dall’io spirituale di Gurdjjeff nei suoi tre veicoli, fisico, emotivo e mentale, prende le mosse il delirio al cubo che Domenico Loddo destina al teatro. Tre donne e tre diversi temperamenti, tre anime messe a nudo nell’unico inspiegabile istante delle loro decifrabilissime esistenze. Quattro pareti le accolgono e lì comincia la scoordinata danza di tre corpi che cercano una spiegazione, che scavano a piene mani, in perfetta reciprocità, nelle loro esistenze, che maldestramente si dimenano in quell’universo comunicativo per troppo tempo eluso.
“Lazzaro” è lo spettacolo che ha debuttato sabato al teatro Dei 3 Mestieri, con la regia di Christian Maria Parisi e Marcantonio Pinizzotto, e si mantiene ben distante dai riferimenti evangelici cui il titolo sembrerebbe alludere. Comparabile semmai alle sitcom televisive, con tanto di risate registrate e cambi di scena a scandire le sequenze temporali, “Lazzaro” è di fatto il nome del gatto miracolosamente salvato che ha incrociato alcune vite e ispirato la penna di Loddo.
Un delirio per/su/con Milena Bartolone, Gabriella Cacia ed Elvira Ghirlanda, alle quali riesce bene, quantunque insaccate in tute di marveliana memoria, indossare gli abiti mentali che l’autore ha confezionato su misura per loro. La fisicità di Milena, l’emotività di Gabriella e il veicolo puramente mentale che contraddistingue Elvira creano sulla scena quell’unicum spirituale attorno al quale ruota il perfetto meccanismo congegnato dai due estrosi registi.
Universi sconosciuti giunti lì senza una ragione sono dapprima numeri, poi parole, poi anime. Il potere della comunicazione al quale, una a una, le tre donne loro malgrado soccombono accorcia di un poco la strada che conduce al trivio ove finalmente tutto si ricompone.
Nulla che lasciasse presagire la catastrofe. Applausi e risate erano indotti artificialmente per mezzo di uno schermo luminoso a favore di pubblico. E tanto si è riso, tanto si è applaudito via via che ci si addentrava nelle esistenze delle recluse, dispiegate con la leggerezza necessaria a renderne meno spigolosi i contorni. Tra un aforisma di Cioran e i gradevoli rimpasti cinematografici con i quali abilmente gioca l’autore, prendevano intanto forma le tre vite, solo all’apparenza distanti, che la scatola magica del palcoscenico aveva scelto di animare.
Ogni interprete possiede le doti fisiche, tecniche e psicologiche richieste dal personaggio, giacché ogni interprete è esso stesso il personaggio di cui si fa carico. Ci si intende, da attrici, alla perfezione. Molto più di quanto uno, tre e quattro si prestano vicendevolmente orecchio nella tragica circostanza che le accomuna.
Attorno a loro un cumulo di oggetti senza senso e scatole dentro alle quali frugare, per rinvenire un indizio che solo le parole hanno invece il privilegio di celare. Alla cura degli spazi di Valentina Sofi si accompagnano le luci di Guillermo Laurin, essenziali ambedue a generare il caos e ad accalappiarlo nella claustrofobia della storia. Mentre nell’aria aleggiano le note di Domenico e Fabrizio Canale, preludio di un’ora alla soluzione che si avvinghia ad “Annarella” dei CCCP, a quel suo meraviglioso attacco che reclama l’abbandono e che profuma di resa.
Il creativo e pur tuttavia metodico impegno registico di Parisi e Pinizzotto ha fatto sì che i numerosi ingredienti adoperati da Loddo in fase di scrittura risultassero ben amalgamati e decantati in quella unità che poi decreta la riuscita dello spettacolo.
Ci si astiene qui dal chiudere il cerchio sulla storia, onde evitare di spoilerarne il finale. Che poi “spoilerare” non è che semanticamente si presti al teatro, ma “Lazzaro” al teatro propriamente detto sembra per qualche arcana ragione sottrarsi e piuttosto precipitare nel vortice delle serie televisive. Gli esiti felici del precipizio danno però ragione alla regia, coraggiosamente spiazzante tanto quanto il numero 1 nel momento della confessione.
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