È nel solco della drammaturgia della disfatta e dell’atemporalità, nel quadro rarefatto e illogico entro cui si mescolano nostalgia, rassegnazione e illusione, che “La malafesta” dispiega l’azione dell’anima sulla scena del Clan Off di via Trento. Nell’immobilità della vita e nella condanna di tutti a viverla, si compie così il viaggio interiore, fortuito e senza meta di due poveri cristi cui la disgrazia ha apparecchiato il destino.
Lo spazio è mentale. Ed è abitato da presenze astratte. Per loro non v’è via di fuga. Lì la scrittura di Rino Marino, potente com’è potente il dialetto che di atavica saggezza la ammanta, dà voce a quelle presenze, imbastendo per loro una trama comunicativa che, abbattute gradualmente le barriere dell’io, le accomuni. Le maiuscole abilità tecniche dello stesso Marino e di Fabrizio Ferracane, unici sulla scena, restituiscono loro la propria autenticità di persone, quella intimità che si insinua tra le pieghe del proprio vissuto individuale e sociale.
Tutto comincia con una sequenza di “tuppuliate” alla porta del disgraziato Taddrarite. Il bisogno del “compare” di annientare per qualche ora la più molesta solitudine, in un tempo, quello del Natale, sadicamente deputato alla socialità.
Dal momento in cui Taddrarite apre la porta della sua dimora a quello in cui le anime danzano insieme sulle note della nuda e cruda sopravvivenza, a poco a poco si schiude il loro inferno interiore. Un palangaro in testa e una moltitudine di ami a pescare quella soluzione che non esiste. Le “moschitte” a pungolare la carne in quell’inferno dantesco che è la vita. Ciascuno a piangere le proprie disgrazie. A stare “accussì”, senza gioie e senza affanni.
E mentre si compie il miracolo comunicativo tra i due emarginati senza presente, le luci schiariscono alternatamente i loro passati. I volti, nel ricordo, perdono un po’ d’inquietudine, per acquistare quella grottesca compassionevole luminescenza che solo il tempo andato può generare.
La malafesta è la festa dei disgraziati da inventare. È il mondo popolato d’una volta che abbandona per una sera il cimitero e fa festa attorno ai due nati-morti. È il “ciauro” della Baronessa, la supponenza dell’americano che mastica tabacco e sputa per terra, è il candore d’una bambina. È la musica dell’organetto che poi s’arresta. Quando finisce la festa. Quando si torna a essere spiriti senza carne. Quando il cielo ridiventa nero come la pece. E la sveglia segna sempre le otto. Ché il tempo è corollario della vita. Ché ove la morte s’attarda il ticchettio delle lancette risulta uno straziante e intollerabile memento vivere.
(da Infomessina.it)
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