Cinema, letteratura, musica e manga armonicamente mixati dal regista Takahiro Fujita nello spettacolo “Dots and lines, and the cube formed. The many different worlds inside. And light”, di cui ne è peraltro l’autore, portato ieri in scena dalla compagnia giapponese Mum&Gypsy al Teatro Vittorio Emanuele di Messina.
Fujita, giovane esponente della “zero generation” nipponica, ha varcato i confini del linguaggio teatrale più canonico per addentrarsi, come la corrente di cui è maestro Oriza Hirata impone, nella realtà. Abilmente ricostruito un microcosmo che è parte e al contempo simbolo incidentale del tutto, il regista ha omaggiato lo spettatore di una pluralità di forme cui corrispondevano altrettanti sguardi sulle cose. E sul mondo.
Gli attori, nomadi culturali dalla prima tappa fiorentina nel maggio 2013, vivono e recitano. Viaggiano e costituiscono memoria dei loro itinerari, immortalando quegli stessi istanti che poi rivivono sulla scena. Workshop e lezioni aperte in ogni dove per imbastire le performance. Vita su vita di cui Fujita si serve, “mamma” lui, come recita il nome della compagnia” di quei giovani nomadi (gypsy, ndr.) alla scoperta del mondo e di se stessi.
L’espediente da cui si parte, in tal caso, è il ritrovamento in un fosso del corpo di una bambina. È il 2001. Sullo sfondo, opaca più che mai, una cittadina del Giappone. Un infanticidio che scuote. Così dieci anni dopo alcuni giovani richiamano alla memoria quel tempo che ha spezzato la giovane vita, lo rivivono e per certi versi lo inventano. Ché è una linea sottilissima quella che separa la realtà dalla finzione e su cui si affastellano presente e passato, tra funambolici salti temporali e scenari di volta in volta diversi. E in questo gioco che riconduce alla vita l’uomo è privo di maschere, è semplicemente se stesso, con tutti quanti i suoi vizi, le sue più inconfessabili anomalie.
Punti, linee e cubo traducono in fondo il climax ascendente che sta alla base della vita. E, quel che più merita d’essere considerato, sono frutto incessante del vissuto di giovani fuori dalla sala prove. Un meccanismo compositivo inedito e coraggioso che è perenne work in progress. Cambiano i volti, gli scenari. Resta il progetto di Takahiro Fujita che si fa forte della poliedricità del tutto. E quel tutto racconta, partendo dal quotidiano.
Una Nouvelle Vague nipponica cui avrebbero senz’altro guardato con simpatia registi cinematografici del calibro di Truffaut, Godard, Rohmer.
(da Infomessina.it)
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