Una miscela di ingredienti di assoluta garanzia il “Don Chisciotte” andato ieri in scena al teatro Vittorio Emanuele di Messina. Liberamente ispirato al romanzo di Miguel de Cervantes Saavedra, lo spettacolo in due atti gode anzitutto del coscienzioso adattamento di Francesco Niccolini e della drammaturgia corroborante di Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Marcello Prayer e dello stesso Niccolini.
Trasportare la vicenda da una dimensione letteraria all’altra, giacché il teatro è esso stesso letteratura, compendiare e organizzare tanta materia implicano la perizia di scovare la teatralità già insita nello statuto narrativo e convertirla, salvaguardandone i contenuti essenziali, per la macchina scenica. Un’operazione senz’altro ben riuscita nel caso di questo “Don Chisciotte” che si è visibilmente prestato ai trascinanti orizzonti della lettura registica degli stessi Aldorasi, Boni e Prayer.
E perché il pubblico scivolasse con agio nel miracolo della suggestione visiva, contemplando una volta di più lo sfavillio dell’opera di Cervantes, è stato concepito un impianto scenico d’effetto. All’estro e alla genialità di Massimo Troncanetti si deve la gestione, vivace quantunque ponderata, dello spazio. Ogni elemento, formalmente vigoroso, assolveva all’esatta funzione semantica senza minimamente adombrare i personaggi. L’armonia stilistica dell’insieme, puntellata dalle luci chiassose e risolute di Davide Scognamiglio e dalle musiche cortesi di Francesco Forni, è senz’altro il punto di forza d’uno spettacolo ambizioso e oggettivamente ben riuscito.
Ma a ingemmare questo lavoro corale, ove tuttavia nessuna presenza mira a prevaricare, sono gli straordinari Alessio Boni e Serra Yilmaz. L’empatia sul palco dei due attori, provvisti entrambi d’una ragguardevole presenza scenica, contagia la platea. Persino nelle pose e intonazioni manierate che tengono fede ai personaggi, Boni e Yilmaz si sottraggono al gioco lezioso dell’esibizione, alternando identificazione e straniamento in base al contesto e adottando un codice verbale sempre corrispondente all’azione.
Lo spettacolo s’apre sul tentativo di salvare Alonso Quijano (Alessio Boni): adrenalina, massaggio cardiaco, defibrillatore. L’universale sforzo di ingannare la morte, cui si affida la circolarità dell’intreccio drammaturgico, è però defraudato del valore che comunemente gli si riconosce dall’eccentricità della vita. L’hidalgo spagnolo, animato da quella follia che induce a gesta gloriose, foraggia infatti dentro ai margini dell’esistenza una realtà tanto bizzarra quanto salvifica. Che siano i romanzi cavallereschi o, più allusivamente, il rigetto d’una vita conforme ai dettami della società, conta di fatto che Alonso Quijano coltivi ideali etici ed eroici grazie ai quali assegnare una parvenza di senso al quotidiano. O tutt’al più consegnarsi a una morte leggendaria.
Al suo fianco il fido Sancho Panza (Serra Yilmaz). Negli occhi il desiderio di governare un’isola, più credibilmente l’opportunità di uscire dalle rotaie dell’ordinarietà, di sottrarsi alle grinfie di Teresa: il tono perentorio, l’accento calabrese, una femminilità di primo acchito impalpabile.
Tra Don Chisciotte e Sancho Panza scorre il sottilissimo filo del reciproco non detto. Una volta acconsentito al sogno occorre, in una parola, sognare. L’uno tiene in piedi i vagheggiamenti dell’altro, nel mutuo e umanissimo soccorso che non beneficia, né si cura, della pubblica approvazione. Il sogno è una cosa seria. Le burle dei duchi, la passibilità per legge, il biasimo familiare costituiscono un mero e per fortuna aggirabile intralcio.
L’intreccio, strutturato registicamente per quadri narrativi e scortato da un’accattivante e morbida ironia, non trascura la celebre battaglia contro i mulini a vento, la processione dei penitenti e lo scontro a ralenti, l’assalto del gregge di mori, la manovra ardimentosa di calarsi nel pozzo per disincantare l’amata Dulcinea del Toboso. E, per assegnare all’imprevisto una parvenza di ragione e consequenzialità, il mago Sacripante alita su quel palcoscenico allucinato che è il cammino di Don Chisciotte e Sancho Panza.
Accanto ai protagonisti, una folta schiera di personaggi: dalla sorella di Alonso al curato, dal curato alle damigelle, dalle guardie del re alla finta amata dalla cadenza napoletana, dalla morte a un graziosissimo Ronzinante. Marcello Prayer, Francesco Meoni, Pietro Faiella, Liliana Massari, Elena Nico, Nicolò Diana formano un cast davvero all’altezza delle esigenze drammaturgiche e registiche.
E in quell’atmosfera incantata che dondola tra il vero e il credibile, la follia rimane per lo spettatore una nota a margine. Non è delirio pestilenziale, non è la maledizione della letteratura cavalleresca, non è disprezzo della vita. È piuttosto il senso che si intende dare a quell’intervallo di tempo, altrimenti insignificante, tra la vita e la morte. È l’eroismo eternato dalla scrittura. Il risibile che cela dignità, la ribellione confortata dall’onestà, dall’audacia, dal sogno.
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