Quando si mettono in scena tre personaggi infestati dal demone celiniano e li si lascia sproloquiare in preda ai nevrotici e ossimoricamente lucidi deliri di fine anno, allora il teatro può assurgere a metafora di vita. Sgangherata quanto si vuole, ma vita.
Ed è nel salone del parrucchiere Ferdinando, depositario delle storture di quel mondo che egli stesso acconcia, che si gioca la partita tra universi all’apparenza dissimili eppure conformi nel tentativo, ahimè vano, di plasmare la realtà. Per conquistare un posto nel mondo, per riacciuffare un ricordo, o più semplicemente sopravvivere.
Queste le basi su cui si erge lo spettacolo di Paride Acacia, “Confessioni di un demone”, un omaggio a quel Céline che, da dietro la lente d’ingrandimento del nichilismo, aveva letto le miserie della natura umana, per poi incastonarle in un’opera omnia che l’aveva di fatto emarginato dalla vita culturale del suo tempo. Ché ci vuole un gran coraggio a essere sé stessi, e questo Céline, come del resto i tre poveri cristi sgorgati dalla penna di Paride Acacia, lo sapeva bene.
Strafatti di ammoniaca e acqua ossigenata, vagheggiano l’ideale di un biondo stile David Bowie che possa imprimere una dura sferzata alle loro esistenze. Ferdinando meno incline a sposare l’ideale romantico della vita, Elisabeth fluttuante tra le onde di un presente che le è sfuggito di mano, Cecilia piena di sé e vuota di quel tanto che basterebbe per riportarla alla realtà.
Vittime e carnefici a un tempo, danzano sulla scena al ritmo di note esistenziali stonate. Hanno mente e corpo al servizio di istinti primordiali e al contempo di sovrastrutture mentali che li rendono disarmonici. È dunque il caos. È la mistura demoniaca di sesso e pornografia, di disvalori e il nulla che li edifica, è il sogno di “una mangiatoia calda e rassicurante” che si infrange nella giostra della vita.
Il tutto condito dalle neppure troppo farneticanti dissertazioni sul mondo della critica e dell’editoria, su un anticlericalismo che tira e sulla letteratura che, a detrimento della qualità, quantitativamente straripa.
C’è qui tutto Céline insomma. E c’è lo sdegno vomitato sulle cose che appartengono a un mondo abitato da impostori e finte bionde. Un mondo che esige compromessi, che pullula di maschere e finzioni.
Le sorprese appena dietro l’angolo. A restituire credibilità alla vita, a soffocare il sogno, a inchiodare tutte quante le adulterazioni atte ad agguantarlo.
La Compagnia Efremrock ha, in definitiva, messo in scena il disordine esistenziale tra il quale prova, come meglio può, a districarsi l’uomo. Le eccellenti performance di Gabriella Cacia, Michele Falica ed Elvira Ghirlanda, innanzi al folto pubblico dei Magazzini del Sale, hanno dato abilmente voce a quel caos. Sguazzandoci come si confà a tutte le anime perse che inseguono l’assurda redenzione.
(da Tgme.it)
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