Passi pesanti e respiro affannato. Manca l’aria. E, del resto, come si conta l’aria? Ché se la comprimi tra le mura strette di un carcere quella, l’aria, manca sempre.
Inizia così il claustrofobico resoconto del più grave errore giudiziario della storia italiana. Inizia senza aria perché se un uomo trascorre in carcere ventidue anni per un reato mai commesso non gli rimane più nemmeno quella. Il teatro non può restituirla, s’intende. Ma ha il privilegio di affrescarla, di sottrarla poco per volta, fino ad affannare il respiro di chi assiste alla messa in scena di un calvario, a un’ora di parole che si arrogano finalmente il diritto di tracimare, al compendio di una vita spolpata di vita.
“Come un granello di sabbia”, scritto e diretto da Salvatore Arena e Massimo Barilla, con Salvatore Arena, è quel macigno che Mana Chuma Teatro ha scelto di scagliare sulle tavole del palcoscenico perché lì, e solo lì, nella ieratica magniloquenza del silenzio, potesse scuotere violentemente l’aria.
Il 27 gennaio 1976 l’assassinio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina. Giuseppe Gulotta ha poco più di diciotto anni, fa il muratore e non beve vino. Due uomini in divisa lo strappano a un’esistenza semplice che imbratta mani di calce. Quindi lo stato di fermo, le torture, la confessione nero su bianco di un reato mai commesso. E ritrattare non serve. Occorre assicurare alla giustizia i colpevoli. Però la verità è come un diamante. Dura e incorruttibile, anche quando viene tradita da chi avrebbe dovuto difenderla. Così incorruttibile che, ventidue anni dopo la condanna all’ergastolo, Giuseppe Gulotta possa essere assolto con formula piena.
E la vita sottrattagli? E l’aria? Chi può restituirgliele? E qui si inserisce il flusso verbale violento e al contempo delicato, con sbalzi di registro che effigiano quelli ben più convulsi dell’anima, di un eccezionale Arena. Le disarmoniche asprezze di una vita senz’aria nell’euritmica dignità di parole sintonizzate con i respiri. Nessuna arroganza moralistica, nessun giudizio che adombri le sentenze emesse in tribunale e consegnate senza chiose allo spettatore. E sulla misura di una drammaturgia esatta, come esatto sa essere l’errore, si confeziona uno spettacolo registicamente calibrato entro cui l’attore fagocita gli spazi, i fatti, finanche le parole pronunciate un attimo prima. Perché tutto decorosamente contiene dentro di sé. E il dolore, l’impotenza, la disperazione fanno il giro della stanza e ritornano nell’unico individuo che sa realmente cosa significhi contenerle.
Alle scene di Aldo Zucco, alle musiche originali di Luigi Polimeni, al disegno luci di Stefano Barbagallo è ascrivibile il medesimo pregio: la capacità di asseverare la cifra stilistica degli autori, nascostamente però, senza grandeggiare. Così che tutto funzioni alla perfezione: privilegio di certo teatro, non della vita. La consulenza storica di Giuseppe Gulotta e Nicola Biondo, autori del libro “Alkamar – la mia vita in carcere da innocente” (ed. Chiarelettere), ha fornito un prezioso contributo a una drammaturgia che è specchio della sindrome dei giorni amputati, arti fantasma di un’esistenza rapita, segregata, mutila di esistenza.
Si può lavare un nome, lo si può lavare persino nell’acqua benedetta, ma resta l’uomo, figura di cartone ritagliata da altri. Un nome lavato quando lo Stato trova nuovi occhi, quando parla qualcuno dei tanti che avevano taciuto, o dimenticato, quando il tempo ti è stato tolto. E quello nessuno può più restituirtelo. Giuseppe Gulotta è vivo. A dispetto delle carte usate, dei dubbi soffocati, di quella stessa aria che mancava, affannando il respiro. Ma quanti ancora camminano e cercano nel buio, senz’aria? Al Clan Off Teatro calano le luci sulla verità. E ricomincia, fuori, la finzione.
(da Infomessina.it)
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