Palermo. Cantieri alla Zisa. Si respira un’aria per descrivere la quale le parole rischiano d’essere inadeguate. Qui tutto è come sospeso. Non v’è più confine tra arte e vita, tra sogno e realtà. Qui tutto converge verso quell’insopprimibile punto ove l’amore a buon diritto pretende di soppiantare ogni cosa. Rammendo peraltro d’un mondo sdrucito che replica all’universalità di questo sentimento ergendo barricate a salvaguardia dell’hortus conclusus dell’io.
Dietro il progetto “Antigone Power”, vincitore del bando “MigrArti spettacolo 2018” indetto dal MiBACT, si cela infatti la strenua resistenza alle delimitazioni geopolitiche che alimentano discriminazioni e declinano le più meschine forme dell’odio.
Non è un caso che all’urgenza di mettere a nudo l’uomo, con tutte quante le sue miserie, sia corrisposta la rivisitazione dell’Antigone di Sofocle, ove la chiave di lettura delle anime già vira verso quell’umanizzazione che meno apparteneva alla tragedia eschilea.
Sul testo “Antigone Power” di Ubah Cristina Ali Farah, Giuseppe Massa e Margherita Ortolani hanno imbastito una drammaturgia che lascia intatti i colori e i profumi di quell’Africa fiera di sé dalla quale si partiva e hanno piuttosto portato alle estreme conseguenze quella pochezza che mira ancora adesso a fiaccarla. L’Africa è impressa nel volto di un’Antigone cui ha prestato corpo, voce e cuore Glory Arekekhuegbe, sicura e disinvolta al suo debutto ufficiale sulla scena. E sono africane, e obbediscono alle leggi ancestrali di un mondo ove la ragion di Stato mai giustifica il sangue, le sue lacrime, la sua personalissima guerra, il suo immenso coraggio.
In Creonte, di contro, albergano tutte quante le miserie cui la civiltà, dimentica del suo vagabondare senza senso e senza scopo, è assuefatta al punto di non riconoscerle più come tali.
Tant’è che la scrittura scenica prima e la regia di Giuseppe Massa poi riconoscono a Creonte, magistralmente interpretato da Fabrizio Ferracane, quella povertà di spirito che rende meschini ancor più che crudeli, inconsapevoli ancor più che scientemente peccatori, in una parola miseri. Con l’evidente richiamo all’oscurantismo della società di basso profilo in cui viviamo, nel proliferare assurdo di disvalori che ne consegue.
Antigone Power s’apre sul pianto delle donne avvinghiate ai corpi insanguinati, ritti come statue, dei caduti in battaglia. In quei lamenti, nella disperazione v’è tutta l’impotenza del genere umano innanzi alla morte. E v’è il dolore che cagiona l’assenza, fosse quella definitiva del trapasso o quella non meno greve del distacco presto appreso dai giovani immigrati sulla scena.
Il re di Tebe si pronuncia sulla sepoltura di Eteocle, ma non intende curarsi del corpo senza vita di Polinice, “feccia delle fecce”, indegno delle lacrime. Ché i legami familiari soggiacciono alla vendetta della città dalle sette porte, all’esercizio bieco e futile del potere.
E se Ismene “non è fatta per morire”, umana ammissione che porge il fianco alle ingiustizie di un mondo senza Pietas, Antigone è invece disposta a pagare finanche con la vita il disperato tentativo di dare una degna sepoltura al fratello.
La diversità di Ismene e Antigone culmina in un abbraccio, metafora di tolleranza e sincera accettazione dell’altro.
A Tebe, dopo le lacrime, irrompono i sorrisi. Creonte è ora il re da ossequiare, ora il giullare attorno al quale danzare. Uomo in balìa di sé stesso e vittima di quella stoltezza che all’irreparabilità d’un gesto farà seguire l’altrettanto stolta e vana speranza del rimedio.
A Tebe lo spessore umano e intellettivo dei soldati ricalca quello del re di cui eseguono gli ordini.
A Tebe c’è fame. E nella voracità di Antigone, che fieramente non presta orecchio alle parole di Creonte e intanto divora il pollo che le viene offerto, c’è il desiderio insaziabile di vita. Ora che la morte è vicina. Quel che resta si presta a essere divorato dai tebani, cui non toccherà sorte meno triste di quella della fanciulla.
Tiresia l’ha predetto: “i figli non nascono, muoiono” tra le mura di quella città fatta di sangue e di odio.
Imprigionata Antigone, si compie dunque il dramma d’una stirpe per mano di uno solo. Creonte è “il marito che non conosce moglie, il padre che non conosce figlio”. Al cospetto di Tiresia s’era fatto ancora più meschino, ché il destino mette sempre paura. Ciononostante aveva proseguito il suo percorso verso l’inferno, culminato nel gesto tanto disperato quanto inutile di lavarsi via il sangue da quelle mani sporche che appartengono sì a un cuore bianco, ma bianco non già per la shakespeariana purezza quanto semmai per la verginità d’ogni discernimento e prudenza.
Sette porte diventano sette bare. Tutto muore. A Tebe come dovunque accada che siano calpestate la giustizia e la morale.
Antigone Power è del resto quella goccia che prova a scavare la pietra dell’umana cecità, in un tempo di annose questioni come migrazione, cittadinanza, diritti umani. Pregevole pertanto l’intero progetto, portato a termine malgrado le difficoltà e grazie al sacrificio di quelli che ancora credono in un teatro e in un mondo migliore.
Alla regia creativa e attenta di Giuseppe Massa, cui va il merito di aver generosamente adattato agli interpreti le sue necessità espressive, è corrisposto l’equilibrio del cast, che si è dato senza riserve, sfruttando al meglio le sue capacità tecniche, artistiche e principalmente umane.
Le scene e i costumi di Mela Dell’Erba hanno presumibilmente mirato all’essenzialità di un mondo grezzo, dove le porte e le bare sono prive di intarsi o levigature, e gli indumenti non si sottraggono al luridume che l’uomo produce al suo passaggio.
Le luci di Michele Ambrose hanno spesso assunto una funzione spiccatamente spaziale, circoscrivendo i limiti angusti dell’io, imprigionandolo all’occorrenza. Policromie che abitualmente non appartengono al teatro ma che pure in Antigone Power si prestano alla rilettura in chiave multietnica della tragedia di Sofocle.
Le musiche dal vivo di Doudou Diuf, Désiré Kudavoo e Latina Caterina Sacco si sono armonicamente mescolate alle sapienti elaborazioni live di Giuseppe Rizzo.
Antigone Power è insomma il frutto della convergenza d’intenti di artisti che continuano a dire no a certo mondo e che a teatro, a certo teatro, affidano il compito di unire ciò che l’uomo vorrebbe dividere. Ignaro del fatto che dietro l’angolo vi sarà sempre una nuova Tebe da uccidere.
(da Ateatro.it)
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