Dalla drammaturgia di Annibale Ruccello, negli spazi dei Magazzini del Sale, la produzione Teatro Primo “Anna Cappelli”. Sulla scena un cubo multiuso concepito dall’ingegno di Osvaldo La Motta e volto a sintetizzare armoniosamente gli ambienti che accolgono le vicissitudini, per lo più emotive, della protagonista.
Innanzi a un ventaglio di letture che avrebbero potuto rimarcare ora le tinte forti del dramma, ora quelle più tenui dell’ironia o del meno cerebrale cinismo nella primordialmente tersa natura di Anna, la scelta dell’inappuntabile regia di Christian Maria Parisi opta per un uso progressivo dei colori che affrescano le stanze mentali della protagonista, dapprima consegnandone le sfumature impercettibili, poi assegnando all’action painting meno controllata il compito di creare quella texture variamente colorata entro cui si compie la parabola di un’esistenza qualunque.
Anna Cappelli è del resto una donna come tante. Una di quelle che sposta i sogni di qualche centimetro per far spazio alla realtà, imbellettandola al fine di nasconderne le vere fattezze. Insoddisfatta del presente, maleodorante come il pesce bollito per i gatti della signora Tavernini, s’inventa un futuro e lo acconcia sulle indicazioni dell’uomo cui consegna sprovvedutamente sé stessa: il ragionier Tonino Scarpa. Una convivenza che negli anni Sessanta rivoluziona i costumi della società, il prezzo nemmeno troppo esoso da pagare alla vita per poggiare le mani sulle cose altrui e sentirle finalmente proprie.
Anna Cappelli scrive poco per volta la sua fiaba e dentro ci mette tutta quanta la malleabilità, il savoir-faire e la grazia che si sforza di possedere. La costruzione a ogni costo di un castello fatato e l’illusione di un principe lì ad accoglierla. Salvo poi, dopo due anni, ricevere il benservito e improvvisamente assistere al crollo definitivo di quel castello di carta che è tutta la sua vita.
Il desiderio di possesso a travolgerla, la disperazione a innescarne l’aggressività, nemmeno troppo graduale la follia. Ad Anna Cappelli non rimane che affondare i denti nelle carni di Tonino, allo scopo di trattenerlo tutto intero. Fossero necessari giorni per banchettare con un corpo di cui ha sempre ignorato il peso.
Le ossa diventeranno candele. Arderanno tutte, si consumeranno anche loro, fino all’ultima. Poi divamperà l’incendio. Dignitoso epilogo d’una fiaba senza lieto fine.
A Silvana Luppino il merito di aver trattenuto il mostro che abitava da sempre il personaggio per tutta la durata dello spettacolo e di averlo liberato occultandone fino all’ultimo istante la ferinità. Corretta e significativa presenza scenica, impeccabile coerenza nell’organizzare un’interpretazione che esigeva complicità affettiva con il personaggio, Silvana Luppino ha comunicato l’essenza di un’avventura umana mettendosi costantemente in gioco e pescando nel proprio muliebre io quei palpiti che ha poi trasferito nella meravigliosa creatura inventata da Ruccello.
Parte integrante dello spettacolo le musiche che, per traslato, aprivano e chiudevano il sipario sulle scene. Un meccanismo di riflessione sull’accaduto e al contempo un’adesione emotiva attraverso le note che rendono riconoscibile l’impronta registica di Parisi.
E in un allestimento che consente l’armonia tematica ed estetica di tutti i codici artistici coinvolti si inserisce perfettamente il disegno luci di Guillermo Laurin, al quale va ascritta la trovata geniale di servirsi, per assegnare ulteriore significato allo sguardo di Anna Cappelli, di quella TV grazie alla quale la regia ha provocatoriamente scandito il ritmo della storia. Una pubblicità dopo l’altra e continuava a scorrere la vita. Fino all’ineludibile catastrofe che mette uomini e cose a tacere, per sempre.
(da Infomessina.it)
Lascia una risposta