Sedie pieghevoli in legno, fiori in una bottiglia di vetro e lui, Amleto, in abiti e make-up elisabettiani. Il volto è smarrito, gli occhi cercano conforto, le mani notificano irrequietezza.
Il dramma si è compiuto, sono solo i miseri resti di un’anima alla deriva senza venti, senza correnti. Attorno il nulla. E silenzi che non cooperano alla cognizione del già stato, alla revisione d’un tempo orfano di requie, al turbamento del teatro shakesperiano.
L’Amleto di Michele Sinisi è un pagliaccio cui non compete divertire. I modi goffi sono il correlativo oggettivo del sentire, al netto della speranza, della disposizione psicologica al riso.
Ossessionato dai fantasmi, Amleto instaura un dialogo nevrastenico con i personaggi. Sedie vuote da sbattere fragorosamente quando non parlano, non odono, non esistono. Disseminato il male, eluso il bene, taciute le verità, ossequiato il copione, sono già andati tutti via. Pezzi di legno vuoti d’anima, inzaccherati di vita, di passione, di sangue, pur sempre morti.
Urge specificare chi si è, che si è ancora quando ci si chiama in causa: “Amleto, cioè io”. Ma sono mille e mille Amleto ad aggirarsi tra una folla che non dice più. Qualche fiore da spargere, vite da mondare goccia a goccia, l’ultima occasione di pentimento sciupata. “Essere o non essere” diventa un interrogativo senza senso.
Se pure Amleto, abbigliato per addizione da Luigi Spezzacatene, ha qualcosa dentro che supera le scene, il teatro esige infinite repliche del dolore. “È una stoccata” la vita. E, come tale, non risparmia nessuno. Sguainare la spada non serve più, la pugna ha già decretato gli sconfitti. Tu puoi solo agitarti sulle tavole del palcoscenico, con la tua piuma che non oltraggia, ma l’oltraggio è già stato.
Il re morto è dentro il vetro di un portafiori e se gli dai voce si scoperchia l’inferno. Polonio ha pagato i consigli al traditore. Ofelia non ode più le parole del Principe di Danimarca. Il veleno ha spezzato vite. Laerte, Fortebraccio sono silenziosi uditori. Claudio e Gertrude possiedono, come tutti, una coscienza codarda. Lo sguardo della madre suscita per un istante pietà. Poi, prima della buonanotte, la virtù non risponde all’ultimo appello. E la misericordia si congeda.
Il cuscino è rosso. Come le passioni che agitano l’animo umano, come il sangue già grondato nel giro d’una clessidra.
Ben al di là della verità oggettiva rimane Amleto, segno della finzione per eccellenza, pur tuttavia umano.
L’operazione di Michele Sinisi, lungi dalle divagazioni narrative di certi saccheggi drammaturgici, mira allo spirito profondo di un personaggio tra i più rappresentati a teatro, sul solco di quella misteriosa brama di condivisione che anima tante volte l’individuo. Non v’è presunzione, nell’esplorazione del labirinto psichico, di apprendere in via definitiva la natura umana. Ma sono comunque battiti, palpiti, nevrosi, squilibri che riconsegnano un tutto reale, come reale è il teatro nel suo reiterare la vita.
Secondo la lezione di Jarry, il Sinisi attore smarrisce volutamente la personalità e si fa maschera. La gestualità è geometrica, la recitazione è azione. Non si nasconde, insomma, l’artificio. Un teatro, questo, che esige teatro. Laddove tutto è cominciato, laddove nulla mai può finire davvero.
E sulla solitudine di Amleto, fedele specchio dell’isolamento artistico attuale, si apre la quarta stagione de Il cortile Teatro Festival a cura di Roberto Zorn Bonaventura e Giuseppe Giamboi. Nel rispetto delle regole del distanziamento sociale, il teatro indipendente vuole ricominciare a dire. La rete siciliana di drammaturgia contemporanea Latitudini c’è. Le istituzioni latitano. La caparbietà, il coraggio di Bonaventura e Giamboi celano la convinzione dell’esistenza di altri mondi, migliori.
Nel cortile del settecentesco palazzo Calapaj-D’Alcontres si torna dunque a respirare teatro, si gustano le pietanze curate del ristorante ‘A Cucchiara, si ha come la sensazione che il tempo sospeso del Covid non sia mai esistito. Malgrado le mascherine, il termoscanner. Malgrado quello stesso tempo di silenzio colpevole che non ha raccolto il grido del teatro.
Come Claudio, come Gertrude, come Laerte, l’Italia resta una sedia muta cui si urla invano. Il fracasso provocato da Amleto rimane un gesto di protesta, l’esercizio incontrollato di un disagio. A teatro, quell’atto rivoluzionario al quale concorrono gesti, parole, respiri.
(da Infomessina.it)
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