“Siamo qua come agli orli della vita, Contessa. Gli orli, a un comando, si distaccano, entra l’invisibile: vaporano i fantasmi”.
Luigi Pirandello
L’aura è metafisica, surreale. La premessa culturale è quella concezione tutta novecentesca del mito esplicitata in senso ideologico da Massimo Bontempelli e messa in scena dall’ultimo Pirandello. “I giganti della montagna”, opera iniziata nel 1931 e rimasta incompiuti, esplora pertanto l’angoscioso “oltre” che preluderebbe al volontario ritorno al Caos dell’autore di Girgenti. Un ritorno alle origini, insomma. Nell’ultima forma possibile, quella immateriale. Liberata da tutti quegli impacci, ecco l’anima ci resta grande come l’aria. L’ascesa immaginaria che aspira al superamento dei conflitti tra l’essere e la storia, tra la poesia e il mondo che si sublima nei monologhi di Cotrone. Il rifiuto del contingente che si traduce in una nostalgica aspirazione all’assolutezza mitica, appunto. Un’estraneità al reale che esige magia. E una forma teatrale favolosa che possa accoglierla. Le tendenze mistiche e irrazionalistiche del cosiddetto teatro dei “miti” stabiliscono di fatto un inedito contatto con l’essenza stessa delle cose. Sono verità arcane da scorgere nei simboli, è vaghezza, mistero; sono corrispondenze esoteriche tra uomo e natura. L’arte ha il precipuo compito di rivelarne l’essenza. “I giganti della montagna” dà voce così ai tarli che insinuano la mente di Pirandello al declinare dei suoi giorni. Tra gli altri, il ruolo del teatro, e più in generale dell’arte, nella società industriale e capitalistica. Argomento più che mai attuale.
Non tradisce la drammaturgia di Pirandello, anzi la rende appetibile al pubblico, Gabriele Lavia alle prese con un allestimento fedele alla partitura verbale e fantasioso nella scelta di una cornice atta ad accoglierla. L’impianto visivo della scenografia di Alessandro Camera assume addirittura un ruolo fondamentale nell’operazione teatrale di Lavia e a essa si equiparano i colori di uno spettacolo appariscente che nella squisita articolazione degli apparati concentra larga parte della creatività di tutta l’operazione.
La produzione del Teatro della Toscana, la coproduzione del Teatro Stabile di Torino e del Teatro Biondo di Palermo, il contributo della Regione Sicilia e il sostegno di ATCL autorizzano un impianto stilistico che molto confida sulla spettacolarizzazione dell’arte. Si presume infatti che Lavia abbia scelto l’esuberanza della forma per uno spettacolo che ragiona sui condizionamenti materiali della pura creazione poetica al fine di metterne in ulteriore risalto le contraddizioni. Si spiegano dunque le rovine di un teatro barocco, i colonnati che restano quando tutto pare sia andato perduto, il buio sagomato dai palchi a spezzare il quale irrompe, quando è chiamata in causa, la magia. E si spiega quell’enorme drappo bianco a copertura del fondale che isola l’affastellamento dei fantocci e aggiunge carica onirica allo spazio, entro cui le musiche di Antonio Di Pofi concorrono a creare la giusta atmosfera.
Dentro e fuori il poderoso impianto scenografico, si muovono la banda di Scalognati, la compagnia teatrale della contessa Ilse giunta fin lì per mettere in scena “La favola del figlio cambiato”, i fantocci di quella favola, e lui, il mago Cotrone, alter ego di Pirandello. La platea del Vittorio Emanuele subisce incursioni, luci (dal disegno impeccabile di Michelangelo Vitullo). Ha innanzi a sé l’ultima roccaforte della fantasia ove si dipana la vicenda e dietro la minaccia di un mondo tutto, che potrebbe irrompere da un momento all’altro e spazzarla via. Solo Gabriele Lavia, nei panni del mago col copricapo turco, ché la poesia della cristianità è fallita, può concedersi il privilegio di adombrare l’allestimento. Egli possiede abilità tecniche e presenza scenica tali da oscurare, suo malgrado, la dimensione collettiva dello spettacolo. Federica Di Martino interpreta una contessa dalle pose manierate che richiamano certa cinematografia in bianco e nero. Il dramma interiore che attanaglia lei, donna e, prima ancora di donna, attrice, è sacrificato sull’altare dei due veri giganti dello spettacolo: Lavia e l’insieme. Elementi essenziali che bastano e avanzano a raccogliere una pioggia di applausi, dopo aver riempito gli occhi ai numerosi spettatori. Ma il cuore? La contessa Ilse, avvinghiata alla realtà eppure incapace di viverci dentro, è un personaggio complesso dentro l’animo della quale Pirandello scava e scava. Una capacità di espressione più immediata, meno formale, avrebbe probabilmente restituito una verità esistenziale capace di arrivare fino al cuore. E, fatta salva l’elegante interpretazione, comunque la monumentalità dello spettacolo certo ne ha limitato il risalto individuale che il testo sussurrava.
La disperata vigoria degli Scalognati, gente a cuore aperto che abdica alla materialità delle cose in favore della poesia, è eccentrica, con la policromia degli abiti, degli ombrelli, dei preziosi costumi di Andrea Viotti. Una scelta stilistica, questa, che si conforma all’allestimento pregevole ma per nulla morigerato dei Giganti di Lavia. Tuttavia nel più sontuoso apparato scenico, nell’opulenza del visibile che cattura il pubblico, a Cotrone certo non sfuggono il valore dell’invisibile, la necessità di lasciar fluire i fantasmi che ha in mente, l’inconciliabilità dell’arte e del mondo. Il mago bandisce allora le maschere, eleva a condizione di squisito privilegio la mendicità. Noi siamo apparenza tra apparenze. Ogni forma è la morte. Mentre non perde la speranza di restituire dignità alle rovine e dare finalmente corpo a quella fantasia del poeta che è il vero miracolo di un mondo fuori dai limiti e lontano da quei Giganti che fanno paura. Altrimenti recitare per chi? Recitare perché?
(da Infomessina.it)
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