Giusi Arimatea

TEATRO

DRACULA

Ben definita e riconoscibile l’impronta registica di Sergio Rubini che, dopo “Delitto/Castigo”, rilegge alla luce delle proprie categorie estetiche il romanzo gotico per eccellenza: “Dracula” di Bram Stoker. Dalla pubblicazione, nel 1897, una lunga serie di riadattamenti e manipolazioni, più o meno audaci, a opera del cinema di genere, fino alla riguardosa versione di Francis Ford Coppola, che nel 1992 rilesse la figura del Conte Vlad in chiave spiccatamente romantica, ben districandosi tra la fedeltà al testo annunciata dal titolo e le personali scelte interpretative atte a dare nuova vita a un classico d’epoca vittoriana.
“Dracula”, prodotto da Nuovo Teatro e dalla Fondazione Teatro della Toscana, è il primo spettacolo della stagione di prosa al Vittorio Emanuele di Messina. Un fascinoso viaggio negli abissi dell’animo umano che, in quanto tale, apre infiniti varchi tra le affettate apparenze imposte dalla morale comune e restituisce l’individuo all’agire licenzioso dei primordi. Le cupe atmosfere entro cui si consuma essenzialmente il dramma di un uomo, ancorché prima di un mostro, abitano le stanze mentali di Sergio Rubini, che dimostra nuovamente di poterle affrescare sulla scena, armonizzando i singoli elementi di uno spericolato disegno registico. Pochi, a dire il vero, i contributi in termini di scrittura, nell’adattamento di Carla Cavalluzzi e Sergio Rubini, all’opera originale. Ma sulla partitura verbale di Bram Stoker Rubini allestisce uno spettacolo che manifestamente punta su grandi apparati e su ingegnosi artifici formali, primo fra gli altri l’impianto scenografico di Gregorio Botta: teli a piovere dal soffitto o a coprire specchi su strutture amovibili cui i differenti rumori imprimono innumerevoli valenze semantiche. Bagni di luce sugli oggetti di scena, tagli che assegnano prospettive alle paure, penombre alternativamente sul presente e sul passato, nel virtuoso disegno di Tommaso Toscano. A ciò si aggiungano gli effetti sonori di G.U.P. Alcaro, essenziali nella velleitaria ricerca di una verità profonda da disseppellire in maniera credibile e spaventevole al contempo. La raffinata articolazione di spazi, apparati vari e linguaggi specifici sorregge del resto la creatività e la filosofia alla base dell’intera operazione.
A relazionarsi continuamente con un ambiente che esalta taluni aspetti della rappresentazione e nei costumi di Chiara Aversano che si amalgamano alla perfezione al quadro d’insieme, finanche richiamando cromaticamente i velluti di scena, un cast d’eccezione. Il compito al quale è chiamato non può dirsi, in questi tempi, facile. Rubini sembra infatti esigere un percorso di riteatralizzazione in chiave brechtiana che sveli l’artificio del teatro attraverso l’espressività di gesti e la risoluzione della parola in azione. Grande prova attoriale di Luigi Lo Cascio e Lorenzo Lavia, l’uno nei panni di Jonathan Harker, l’altro in quelli del pazzo Renfield. Entrambi sopra le righe, entrambi per scelta registica in ossequio alla migliore eredità mattatoriale, rispettosi delle consuetudini formali della tradizione, imbrigliati vocalmente in quei microfoni che saccheggiano le sfumature vocali, eppure straordinariamente capaci di comunicare senza alcun egocentrismo l’essenza di un’avventura umana. Procede invece per sottrazione Rubini, dimesso e attempato Van Helsing al quale non competono tirate o gesti melodrammatici. In lui, più che negli altri, paradossalmente si intravedono emozioni vissute, non già recitate. Anche Alice Bertini, come Lo Cascio e Lavia, è chiamata a contorcersi per effigiare il dramma di Mina che oscilla tra il dolore e la trasgressione, arrivando tuttavia allo spettatore nei momenti meno urlati ove la speranza sa spegnersi in uno sguardo e il male accendersi nel più mefistofelico sorriso. Drammaturgicamente defilato Roberto Salemi, il dottor Seward.
Dulcis in fundo lui, il conte Vlad (Geno Diana), del quale mi sfugge la connessione a un insieme tutto sommato dignitoso e formalmente ben oltre le aspettative. Dracula è la presenza impalpabile che aleggia nell’universo gotico abilmente ricreato da Rubini. Non lo si può ridurre a caricatura di sé, affibbiandogli pose quasi farsesche e un rumeno di cui ci si sforza invano di comprendere le ragioni. Pesa più Dracula della parrucca bianca che usa Jonathan Harker e che nulla aggiunge, piuttosto rischia di togliere, agli inappuntabili procedimenti di analessi e prolessi gestiti registicamente. Pesa più di una decapitazione forzata. Pesa più di tutto, Dracula, perché attorno a questa figura ruota una storia, col suo greve carico di senso. Perché quel senso a teatro finalmente sfugge la superficialità del quotidiano. E perché non un solo spiraglio a quella superficialità va lasciato. Ché essa, ovunque trovi strada, si insinua, persino svilendo il pregevole lavoro che a Sergio Rubini si riconosce e al servizio del quale si muove quella grande macchina di linguaggi che aduna artisti chiamati a proiettare sul palcoscenico nientemeno che la natura umana in un contesto spazio-temporale definito sì, ma ubiquo ed eterno. 

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