Quattro fogli stropicciati dapprima a delimitare il dolore che si raggomitola in un corpo solo, poi a segnare gli angoli di quel ring ove si consuma l’incontro tra la privazione e il vano tentativo di sopportarla, leitmotiv di una vita illustre come di tutte le vite che popolano questo incomprensibile universo.
Sarah porta sulle spalle il peso di un’assenza, Sarah è depressa, Sarah è sola, Sarah sceglie la morte. E il suo sarebbe un percorso lineare verso la quiete eterna se il gran sipario dell’esistenza si chiudesse sull’ultimo respiro. Invece no. Invece il dolore è un ciclo iterativo e continuo di vita e morte, non conosce quiete, non ammette interruzioni.
Sarah Kane, la drammaturga britannica morta suicida a ventotto anni, diventa allora il mero pretesto per raccontare la storia di privazione e desiderio di un’esistenza qualunque colta sul limitare dei giorni, nello stato ipnotico che precede e segue il trapasso. Di là però non è quella miglior vita cui riguardosamente allude la perifrasi. Di là è tutto come lo si lascia. Persino il dolore è lo stesso. E ti si appiccica addosso, mentre le gambe formicolano e la nausea ti assale. E tu non hai neppure una sigaretta per mescolare fumo e desolazione.
“Io, Sarah” è il delirio cui Giovanni Arezzo indica registicamente la traiettoria da seguire, senza tuttavia imbavagliarlo, lasciandolo piuttosto fluire. La traiettoria è un’orbita ellittica che perde velocità in prossimità del sole e poi la riacquista al buio, al freddo, all’inferno. Lì trovi Sarah, tenuta in vita dal dolore eppure morta, elementare particella in un mondo che non le è dato semplificare, spaccata come una crepa, meccanicamente ventilata dalle parole.
Su quella traiettoria Arezzo ha disposto luci, ha gettato e spezzato suoni, ha recapitato lettere, ha concretamente allestito il dolore. Una regia discreta, sensibile che affonda le mani nello strazio non di Sarah, si badi bene, ma di tutti gli esseri senzienti che reiterano all’infinito il proprio karma negativo.
E in quelle traiettorie si è mossa, furiosa e rassegnata, Sarah, un’Alice Sgroi straordinaria dentro i panni che pareva l’avessero attesa una vita. Prova attoriale emotivamente e fisicamente impegnativa che la Sgroi affronta nell’unica maniera possibile: diventando lei Sarah. Fuori e dentro la scena, nei suoi anfibi neri, in quel campo di girasoli dove ha una circonferenza persino il silenzio.
Il rapporto di alterazione con la realtà trascende la percezione puramente materiale delle cose e trascura l’esegesi del dolore. Tutto quello che accade non è, ma è avvertito dai sensi, vigili tra il bianco degli ospedali e tra le pareti entro cui si consuma il dramma del depresso.
A lasciare sensazioni impalpabili e contemporaneamente travolgenti l’amore. E l’amore non si presta alla dimensione costrittiva del reale. L’amore andrebbe sì vissuto. Ma l’amore sa essere malattia, follia, morte. L’amore è il delirio divino di Platone, il rapimento estatico a danno di ogni individuo.
Resta un piccolo varco attraverso cui passare, pur sempre fragili e vulnerabili, da una dimensione all’altra. Lì si accomoda la quiete. Eppure ci si sposta sempre correndo e non ci si siede mai, anche solo per un attimo, a fianco.
Si nasce dunque per essere soli e si muore per non dimenticarlo. In mezzo ci sarà pure la vita. Sarah, però, deve essersela persa o deve averla affidata al teatro, dove il dramma, mai identico, può replicarsi all’infinito.
“Io, Sarah”, produzione MezzARIA, ha aperto il sipario sulla stagione 2018/2020 del teatro Dei 3 Mestieri e andrà in scena anche stasera alle 21:00. È un’umana imperfezione, come da titolo della rassegna. È la vivisezione di un’anima, senza anestesia. È la geometria perfetta del dolore, che si adagia su un cerchio e ne delimita la circonferenza. Nessuno spiraglio, nessuna via, nessun desiderio di fuga.
(da Infomessina.it)
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