Un’operazione che echeggia al pari di un’impresa nel panorama teatrale siciliano. Pochi mezzi, spazi tutti da inventare e ciononostante l’audacia di mettere in piedi uno spettacolo complesso, ravvivando altresì la memoria di una drammaturgia piena di vita, quale è quella dello scrittore ungherese George Tabori.
Produzione MezzARIA in collaborazione con SenzaMisura Teatro, solide realtà volte alla realizzazione di progetti teatrali che coinvolgano artisti professionisti già da tempo attivi sulle scene catanesi. Una maniera di resistere e di imprimere dinamicità a quella cultura che troppo spesso si assopisce nei luoghi istituzionali a essa deputati.
La regia di Nicola Alberto Orofino, alle prese con il funambolico “Mein Kampf” di Tabori, è all’altezza del compito e a essa si riconosce il merito di non aver lesinato alcunché in termini di messa in scena, a dispetto dei mezzi di produzione contenuti. In Sicilia si apprende preso del resto l’arte di arrangiarsi. E arrangiandosi si impara. Orofino ha fatto così di necessità virtù, riuscendo nell’intento di congegnare uno spettacolo che nulla ha da invidiare alle mastodontiche produzioni teatrali che calcano le scene degli stabili.
Il teatro del Canovaccio che ha accolto “Mein Kampf Kabarett” è lo spazio di via Gulli, a Catania, dalle mura antiche e volte a doppia botte nel quale nessuna poltroncina di velluto rosso, delle cinquanta di cui dispone la struttura, il 21 febbraio, in occasione del debutto dello spettacolo di Orofino, è rimasta vuota.
Il dramma di Tabori, che tratta con leggerezza temi tragici e di forte impatto emotivo, ha subìto quella virata in chiave satirica alla quale allude il sottotitolo tedesco Kabarett. Omaggio del regista alla Germania di Weimar, quando sugli artisti ebrei non erano ancora stati scagliati gli strali velenosi del regime nazista prossimo a venire.
Scenari che ben si prestano a valicare i tempi e gli spazi dentro ai quali si inserisce la drammaturgia di Tabori, schiudendo piuttosto inediti, ipotizzabili e altrettanto tragici panorami.
Si incontrano allora a metà strada l’orribile e il banale, negli interstizi dei quali si insinua il giovane Hitler, mediocre come tanti, frustrato, irascibile, maldestro, in un unico aggettivo “umano”.
L’esame di ammissione all’Accademia viennese di Belle Arti, con il proprio bagaglio pittorico di schizofreniche penombre. L’incontro casuale di due mendicanti ebrei, l’ex cuoco Lobkowitz e l’aspirante scrittore Schlomo Herzl, grazie alla collaborazione dei quali Tabori restituisce la versione riveduta e corretta della storia ufficiale. Tutto sembra ricostruire un tempo all’interno del quale ai giovani è ancora concesso di contraddire il destino, riscrivendolo. Operazione tanto più semplice se ci si imbatte nelle persone giuste, quelle che sostengono al momento dell’esame, consolano al tempo delle sconfitte, finanche sottraggono alla morte, presaga degli orrori di cui è capace un führer o, più verosimilmente, avida di quei passati numeri che il progresso ha rimpicciolito e che un aiutante del calibro di Hitler può di nuovo incrementare.
Il sempiterno scontro tra il bene e il male, entrambi intesi come due diverse facce dell’unica medaglia che è la vita, al cospetto della quale c’è chi si inventa storie, chi si erge a Dio e chi Dio attende.
Herzl è il personaggio sulle spalle del quale grava il peso dell’incompiuto, dell’inutile vivere aspettando. Strattonato dai piaceri carnali da una parte e dalla morigeratezza dell’osservante dall’altra, da un passato su cui ricamare e da un presente da acconciare, incapace com’è tuttavia di attaccare un misero bottone.
La farsa teologica di Tabori trasposta sulla scena da Orofino racconta dunque dell’amicizia tra il più buffo Hitler che si possa mai immaginare e il libraio ebreo del quale, con molta fantasia, potrebbe addirittura essere lontano parente.
Il contesto surreale richiamato dalle scene, più che dai costumi, di Cristina Ipsaro Passione, dà perfetto alloggio alla vis comica dei personaggi, come a quella spiritualità che in maniera diversa li attraversa. È esattamente su ciascuno di essi che s’arresta il flusso della storia. Così che ognuno resti lì, inchiodato a un momento che si sarebbe potuto sgretolare in milioni di ulteriori momenti, e che tuttavia sembra sussurrare l’inappellabile es muss sein dell’esistenza.
Sapientemente orchestrato da Orofino, il generosissimo cast costituito da Giovanni Arezzo, Francesco Bernava, Egle Doria, Luca Fiorino e Alice Sgroi. Ciascuno, oltreché all’altezza del compito, ha dato ampia prova di poter sostenere i ritmi incalzanti di uno spettacolo di oltre due ore, mettendo al servizio dell’impianto squisitamente corale l’esuberanza del singolo personaggio che interpretava. Fosse o meno direttamente coinvolto nei dialoghi, ogni attore contribuiva, pur nella diversificazione dei registri stilistici, a vivificare il policromo quadro d’insieme. Sul palco si generava un magnetismo tale da coinvolgere gli spettatori tanto nei momenti di ingegnosa ilarità quanto nei lampi di tragicità presagita. La recitazione di ciascuno mai si discostava dalla cifra stilistica di Orofino, forgiata sulla necessità di salvaguardare la magnificenza della drammaturgia e allo stesso tempo adornarla di una creatività propria e, nel caso del regista etneo, ben riconoscibile.
L’allestimento tutto, musiche comprese, ha pertanto reso onore al Mein Kampf di George Tabori, poco rappresentato a dire il vero in Italia, che ha innescato il processo creativo di Nicola Alberto Orofino, culminato poi nella pregevole messa in scena del suo personale smagliante Kabarett.
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