Giusi Arimatea

TEATRO

DORA IN AVANTI

La stagione “Radici per restare” si è aperta ufficialmente ieri al Teatro Dei 3 Mestieri di Stefano Cutrupi e Angelo Di Mattia. Saranno venerdì e sabato, quest’anno, i giorni dedicati agli spettacoli in cartellone, per gustare appieno i quali sono state inoltre apportate migliorie strutturali alla platea.
Ci si ritrova lì, a poco più di un mese dalla chiusura della stagione estiva, e si respira nuovamente quell’aria che solo il teatro ha il potere di creare e alla quale ha molto contribuito l’eccellente performance di Silvana Luppino in “Dora in avanti (o della cerchiatura del quadrato)”. Uno spettacolo diretto da Christian Maria Parisi e magistralmente congegnato da Domneico Loddo; le scene di Valentina Sofi; le luci di Guillermo Laurin.
Produzione Teatro Primo, il monologo di Dora Kieslowsky ha ricalcato nel suo dispiegarsi il movimento di quella altalena che tanta parte aveva avuto nell’infanzia della giovane donna: la forza ondivaga della scrittura, e della vita.
Un andirivieni emozionale compiuto con la leggerezza di certa rassegnata disperazione e con la partecipazione di un pubblico reso complice dalla stessa Dora che a esso tenacemente si rivolgeva.
C’era una vita “di merda” che si era prestata alla drammaturgia. E c’era Dora all’altezza di recitarla. Debuttando sulle note beat dei Quelli nella cover “Una bambolina che fa no no no”.
Figlia, prima che donna, di un padre polacco e di una madre di Dattilo Soprano, a Dora era stata segnata l’infanzia dall’uomo che l’aveva generata.
“Il vuoto che abbiamo dentro è più vasto di una galassia” ripeteva lucidamente Dora mentre il suo inconscio rigurgitava flashback che bastavano da soli, e senza scomodare la psicanalisi, a motivare quel vuoto.
Alla stregua di un redivivo Cioran, Dora aveva compreso l’insignificanza della vita, alla quale non si arriva mai per scelta e durante la quale non si guadagna mai qualcosa. Semmai si perde sempre tutto.
Le occorreva uno spiritual trainer che le indicasse la salvezza. E occorreva subito dopo qualcuno che le decodificasse i messaggi spirituali generosamente dispensati, dei quali i meno trascurabili risultavano anche i criptici: “l’unica via d’uscita è dentro” e “l’unica via d’entrata è fuori”.
Dora aveva un caos interiore tutto suo, che mai partoriva nietzschianamente stelle danzanti, e però l’universo entro cui provava a muoversi certo non la dispensava di ulteriore scompiglio. E Dora, che in avanti era stata proiettata al pari di un missile sganciato da un aereo in volo, tracimava malessere da ogni poro. Assecondando il Karma che la inchiodava all’infelicità, respingeva ella stessa ogni arcana fortuna capitatale: tra le altre, un marito in odore di santità cui lei sessualmente non si concedeva.
Un gioco di scatole cinesi a scoperchiare assurdi pezzi di un’esistenza alla quale era toccato persino il datore di lavoro del marito che le scriveva poesie patafisiche esplicite come esplicito risultava quel fondoschiena polacco di cui Dora andava oltremodo fiera. La patafisica, per inciso, è “la scienza delle soluzioni immaginarie in cui non valgono le regole ma solo le eccezioni”. Una maniera elegante di circoscrivere il più ammaliante nulla.
Con “L’ultima luna” di Lucio Dalla si compiva la parabola ascendente del delirio di una Kieslowski che alla trilogia dei tre colori aveva preferito niente meno che “Bianco, rosso e verdone”. E in quel momento irrompeva il crudele destino che le era stato riservato dall’attimo in cui aveva dubitato del marito, incredibile nota positiva che andava riportata all’ovile della più spietata follia.
Dora ha senz’altro subìto, ma Dora a sua volta, e con sadismo, ha tiranneggiato, in quel suo futile andare avanti voltandosi perennemente indietro. Complici il baule di cose andate e un sagoma, più delle altre, a segnarle l’avvenire.
La vita le aveva riservato più d’una fortuna, eppure lei era riuscita quasi tutte a sprecarle. Dora del resto non sapeva ballare, non sapeva scrivere, non sapeva dipingere. A Dora però era capitato di recitare, e recitare è sempre meglio di vivere.
Cinquanta minuti per un monologo che compone il dramma esistenziale di tutti noi con le parole perfette, come perfetti sono i palindromi, di cui ha il pregio di servirsi la scrittura di Loddo. Disperata e contenuta, feroce e compassionevole, febbricitante e composta. Dicotomica né più né meno del reale.

(da Infomessina.it)

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