“Ragazzo goditi la tua giovinezza. Fa’ il tuo cuore felice. Nei tuoi giorni desiderabili. Va’ dove va il tuo cuore. Va’ dietro all’illusione dei tuoi occhi. E getta via il tormento dal tuo cuore. Stràppati dalla carne il dolore. Ma sappi che per tutto Dio ti giudicherà”.
La sagoma di un uomo, in penombra, oltre il perimetro di quel non luogo ove non si pretende di manipolare la vita, piuttosto se ne rabbercia accidentalmente un’infinitesimale, tuttavia sostanziale, porzione.
A delimitare lo spazio prominenti pannelli scuri, disposti con quella medesima maniacale imprecisione cui il destino beffardamente si ispira per ingabbiare l’uomo, senza dargliene l’idea.
Al di là dei pannelli, visibile e non visibile nell’atto di costeggiarli da parte a parte, un distinto individuo che porta due cose con sé: una valigetta di cui si ignora il contenuto e la sapienza, non meno oscura, atavicamente acquisita e con garbo eiettata, poco prima che tutto abbia inizio. Così che il destino possa già apparecchiarsi nelle parole che l’uomo recita di spalle. Versetti del Qohélet di Guido Ceronetti che echeggiano nell’aria, spargendo alcune di quelle sapienzali meditazioni sulle quali si fonda lo spettacolo “Sira”, in scena al Nuovo Teatro Sanità di Napoli.
La drammaturgia di Tino Caspanello, nel perfetto dosaggio di parole e silenzi che vi soggiace, si presta alla trasposizione sul piano esperenziale delle contemplazioni cui già l’illuminismo aveva scucito il marchio spiccatamente religioso. In scena, dunque, l’uomo. Misero per la sola ragione d’essere hic et nunc, con la millenaria presunzione di esercitare un libero arbitrio mai realmente esistito.
Caspanello veste per l’occasione i panni di un giornalista e Tino Calabrò quelli di un aspirante sicario nell’atto di compiere il rito iniziatico alla violenza. Nulla è tuttavia come sembra. Ché ogni essere umano, ovunque si illuda di andare, porta con sé il proprio passato, l’abbozzo della vita di là da venire e la più intima inconfessata essenza che lo distanzia dalla definitezza, rassicurante quanto si vuole, del destino.
Il caso sembrerebbe condurre il gioco dei due individui, eppure qualcosa a esso vi si sottrae. Mentre il passato rimbalza, composto per frammenti dalle parole che scavano, forti più dell’umana inclinazione a seppellirlo.
Sono dunque due vite, quelle cui prestano i corpi granitici e fragili i personaggi interpretati magistralmente da Caspanello e Calabrò, destinate a danzare sulle note della grazia e della laidezza del mondo, che collidono non si sa se per salvarsi o perire. L’uno, insegnante scampato alla scuola e incappato nel più funesto destino, e l’altro, costretto a quel giogo spietato della violenza per tradizione cui di rado si scampa, sono parimenti vittime e carnefici. Sono stretti nella morsa della vita e invano provano a divincolarsi.
Pare non vi sia luce per loro. Pare, rassegnazione o fuga, la partitura dell’esistenza abbia voluto costringerli a giocare la più crudele partita a scacchi della loro vita. Una mossa dopo l’altra, le due anime si scontrano e nel medesimo disagio si incontrano. Che uno impugni una pistola o l’altro, nel raptus inatteso della disperazione, si avventi sull’altro, nulla che li riguardi sembra tuttavia destinato a mutare. Manca il coraggio, manca la spietatezza, manca la forza di svoltare. Allora la vita, dopo averli squassati, li oltrepassa. Briciole di umanità che nel loro agire e tacere e dire non modificano d’un millimetro il grande universo.
Inappuntabile la regia di Cinzia Muscolino, alla quale si riconosce il merito di aver disciplinato il caos delle coscienze e optato per una cifra stilistica misurata ma pur sempre capace di imprimere ulteriore forza alla drammaturgia meditata di Caspanello, all’interno della quale si muove con estrema disinvoltura. Era indispensabile, per esempio, che la forza dei dialoghi non fosse minimamente scalfita dai singoli elementi che componevano lo spettacolo, e così è stato. Come anche i silenzi, nodali negli orditi della scrittura di Caspanello, fossero sostenuti da movimenti, sguardi, pose atti a sorreggerne l’efficacia.
Di Cinzia Muscolino anche i costumi e le scene, sulle quali si abbatteva, ora insinuandosi ora infrangendosi, un disegno luci incentrato sulle tonalità dell’azzurro e del rosa, generando un prodigioso effetto straniante.
Quando giace sulle ginocchia, reo d’aver esitato nell’attimo perfetto in cui doveva affondare il colpo e definitivamente accedere al mondo del crimine tramandatogli, Salvatore “u scuru” non vede, occhi bassi, l’uscita di scena del giornalista che era stato il suo professore, valigetta in mano e un carico non indifferente di vita. Le note dei Marlene Kuntz non hanno voce, si limitano a scortare la ferocia e la grazia che si congedano dalla scena.
Si chiude così, sul silenzio come si era aperto, quel frammento di vita fermato da Caspanello e incastonato in una struttura perfettamente circolare.
“Sira”, a lungo applaudito dal pubblico del Nuovo Teatro Sanità, fu rappresentato per la prima volta a Pagliara, nel 1996. Il pensiero rivolto alle vittime della mafia, alle stragi, al potere della parola e alla disubbidienza dei figli a certi padri, tuttora così rara. Non è però la reiterazione del reale ad attualizzare “Sira”. È l’inesauribile forza di certo teatro che sopravvive al tempo e allo spazio a eternarne il valore semmai. Proprio grazie a questo teatro si forniscono tutte le volte nuove risposte al disagio dell’individuo e si ribadisce l’importanza, tra il roboante frastuono dell’umanità, delle parole sussurrate, di quelle ponderate, del silenzio.
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